«Se io quando perdo mi sento un po’ in colpa per cui mi scatta questo complesso di colpa e…. che colpa ne ho?»

Il trillo della campanella all’arrivo del rettilineo ha smesso di suonare, e la Cadillac bianca ha finito di tracciare i suoi solchi per allineare i cavalli in pista. Dopo oltre 50 anni di “onorata carriera”, l’impianto di Tor di Valle, che con i suoi oltre 420 mila metri quadri è tra i più grandi ippodromi europei dedicati al trotto, ha chiuso i battenti lo scorso 31 gennaio 2013. Piegato dalla crisi economica mondiale e da quella del settore ippico.
Spenti tutti i monitor, alcuni dei quali non funzionati da anni, ma parte di una scenografia di altri tempi. Quella dell’epoca d’oro dei Mandrake e dei Pomata, delle sfilate di macchine di lusso nei parcheggi, delle donne impellicciate, dei corridoi fumosi e del vociare colorito fatto di vane speranze, gioie, attimi vincenti seguiti da disperazione.
Di chi, con l’ippica e con il vizio del gioco ha perso ogni cosa: vita, lavoro, amici, affetti ma che nonostante tutto continuava, imperterrito, a frequentare quegli spalti umidi e sgangherati. Vecchi signori dalle voci straziate dal fumo scadente, ma dagli occhi ancora vivi e dalle speranze, mai placate, di imbeccare il cavallo vincente alla prossima corsa. È questa gente che ora è rimasta definitivamente orfana.

Per non parlare dei dipendenti della società che gestiva l’impianto: oltre 50 lavoratori che nonostante mesi senza stipendi, incertezze e comunicazioni poco chiare, hanno continuato a lavorare con passione e devozione e ora si ritrovano con un pugno di mosche. A loro si aggiunge tutto il personale delle scuderie, che dovranno essere sgombrate entro fine marzo. Circa 500 cavalli accuditi da 150 persone tra proprietari, allenatori guidatori e artieri ippici. E poi c’è tutto l’indotto costituito da fornitori di mangimi e foraggi, veterinari, maniscalchi, trasportatori. E il bar, quel bar storico e blasonato, con le foto sbiadite e le coppe polverose a testimonianza dei tempi d’oro, del cinema e di Varenne, campioni di cui si stanno perdendo i ricordi da parte delle nuove generazioni, troppo prese dal canto delle sirene dei giochi online.

Chi si ricorderà di quel 26 dicembre del 1959, quando a battezzare l’ippodromo ci fu una sfida mozzafiato vinta da Tornese, il Sauro Volante, che sconfisse il suo storico rivale, Crevalcore, nonostante una pista invasa dall’acqua.
Fotogrammi in bianco e nero sbiadito, che fecero sognare l’Italia e che ora spariranno, inghiottiti dalle ruspe che costruiranno il nuovo stadio della Roma. Una parte della storia del trotto e di quella Roma del boom economico e dell’espansione delle periferie finisce qui, annegata in un mare di debiti, cedendo il passo alle nuove generazioni rampanti di palazzinari e al progresso edilizio e commerciale. Sempre secondo la logica del panem et circenses, adattata ai tempi nostri.